mercoledì 24 maggio 2006

Delirio urbano

Sembra che il mondo là fuori sia improvvisamente diventato familiare. Capovolge bene le immagini, il cervello. Oh sì, ha imparato a farlo a poche settimane dalla nascita: sù, giù, oplà.


Panorama urbano: palazzi, strade, macchine.


Perché mi trovo in questo posto ? Dove sto andando ? Qualcosa ronza nella testa: parole, un linguaggio, frammenti di discorsi scivolati via come acqua sul marmo di quelle statue che ho ammirato, molte volte, nelle piazze del centro. Monumenti all'effimero. Ogni notte porta via la realtà circostante, ogni mattina ne costruisce una nuova, identica. Finché.


Ci sono giorni dispari, o forse ce n'è uno solo all'inizio e un altro alla fine. Non tutto è comprensibile, anzi quasi nulla. Nei rimanenti giorni pari si cerca di restare in pari con la vita: uno a me, uno a te. Il gioco si ripete, uguale, immutabile. Non se ne conoscono le regole. Comprendere: può farlo solo un contenitore. Bisognerebbe aver definito i confini, i limiti. L'inarrivabile infinito è sempre là, in agguato, con la sua trappola mortale: non si lascia comprendere.


Fuggire. Da "qui" a dove ? Vita mimetica. Nascondersi in ciò che sta intorno. Intorno vuol dire confini, frontiere, di nuovo limiti, infiniti spazi finiti incompatibili fra loro.


Dentro, fuori. Da che ? Da chi ? Osservo le mie mani, osservo le parole che si compongono sotto le mie mani, ma non osservo nulla. Fuori, dentro. C'è separazione o contatto ? Continuità o spazio vuoto ? Causa, effetto. Chi o che cosa ha causato "me" ? Che cosa ho causato nel mondo ? Fin troppo, fin troppo ! Smetto di respirare. Sento il battito del cuore. Chiudo gli occhi. Non posso chiudere le orecchie. I miei dolori sono ancora lì.


Come si cambia, come si resta uguali. In ogni caso, inutili. In ogni tempo dannosi a sé e agli altri. Quali altri ? Quelli proiettati dentro un sé che non sa bene dove collocarsi. Quello stesso sé proiettato fuori in mezzo agli altri, che nella migliore delle ipotesi non sanno che farsene.


E si fa sera.