mercoledì 21 settembre 2005

Stanotte

Stanotte avevo freddo:

non c'eri tu a riscaldarmi il cuore.

Avevi forse anche tu freddo,

e non potevo io scaldarti il cuore.


Non c'è poesia

non c'è sequenza di parole

che rappresenti il sentimento

che in quei benedetti momenti brucia dentro.


Oceani sconfinati,

oscuri abissi,

altopiani infiniti,

profondi cieli blu:


nessuno d'essi

può contenere ciò che provo,

niente può alimentare

l'assoluto che sento.


Saprai capirmi tu,

che tanta parte

della mia vera vita

ispiri, tu


che sola puoi

vedere in punta di coltello

questa mia anima,

e forse ogni mio eccesso perdonare ?

martedì 20 settembre 2005

Autunno

Si sta

come gli alunni

sui banchi

in mezzo ai fogli.

lunedì 19 settembre 2005

Vorrei

Vorrei

un'esitenza trasparente

leggera come l'aria.


Vorrei

osservare dall'alto

fuggendo la vita brutta.


Vorrei

trasformarmi in angelo

per capire le cose.


Vorrei

ritornare nel cosmo

da cui sono caduto.

giovedì 15 settembre 2005

E d'intorno è silenzio

Chissà se riuscirò, un giorno, a scrivere per scrivere. Non come faccio adesso, che un demone mi fruga dentro e vive, pretende, vuole essere sbattuto su una pagina bianca. Bianca come la neve, bianca come una notte passata senza dormire, senza sapere perché. Smettere, ricominciare. Rileggermi, quasi mai. Via come un fiume in piena, via fra dolci curve e rapide cascate, via fra quesi sassi, incurante dei fili d'erba inopportuni che si interpongono al mio violento passaggio, via. E sbatto, cado, rumoreggio, sbaglio, bestemmio e prego, invoco aiuto e non sopporto chi mi soccorre. Cambio, e resto lo stesso: come un Gattopardo, perché tutto cambia e tutto resta uguale. La vergogna, ahimé, ha perso la sua forza: nudo mi aggiro in un mondo di bellimbusti incravattati, "squillo" fra squilli di telefonini di ultima generazione. Non ho niente da offrire, oltre me stesso, niente da dare in cambio di quei quattro soldi che mi tengono in vita. Mi vendo, ma non vendo l'anima: nessuno sa chi sono veramente, nessuno sa se scrivo oppure mi possiede un demone che al mio posto usa le dita, che muove i fili di questa immonda marionetta che mi chiama "vita". Non vado neanche a capo, ché un discorso non ha né capo né coda, e per la coda si rischia di esser catturati. Non stacco neanche un po'. Dicono: "prenditi le vacanze". Da chi, da che dovrei fuggir lontano, da quale rimbombar di tuono, da che fulmine trovare riparo ? Nudo sotto il temporale assaporo gocce di tempo che mi scorrono addosso come se fossi trasparente, come se fossi un uomo.




E d'intorno è silenzio.

Nove vite

Vorrei avere nove vite, come i gatti:

una vita per coccolarti

nelle lunghe sere d'inverno,

una vita per proteggerti

da chi ti aggredisce, compresa te stessa,

una vita per poter baciare

ogni centimetro del tuo corpo,

una per imparare a memoria

il tuo odore, non quello del bagnoschiuma,

un'altra per tuffarmi

dentro ai tuoi occhi,

una vita per sorprenderti

con mille novità ogni giorno,

una vita per sentirti parlare

senza interrompere,

una vita per leggere i tuoi racconti

che ogni volta m'incantano,

una vita infine, fosse l'ultima,

per amarti come nessun altro.


venerdì 2 settembre 2005

L'Uccello

Non so come avevo preso quella strada. Non era la mia solita. Avevo subito notato quella finestra, in una casa come tante altre, col piccolo giardino davanti: aveva le persiane aperte ma i vetri accostati, quasi chiusi.


Mi fermai di fronte al davanzale e istintivamente guardai dentro. C'era una piccola gabbia, nella stanza, con un bellissimo uccello prigioniero all'interno. Non avevo mai visto un uccello così splendido: il piumaggio sembrava avere mille colori, che cambiavano a seconda di come la luce si rifletteva e rimbalzava su di esso. Gli occhi erano scuri con venature rosso fuoco. Il becco grosso, forte. Le zampe saldamente agganciate al suo trespolo, rossicce, con belle unghie.


Mi notò. Cominciammo a scrutarci da lontano, a studiarci. Poi all'improvviso ci venne naturale cominciare a parlarci. In un linguaggio che nessun altro poteva comprendere tranne noi due.


Diventò un'abitudine: tutti i giorni passavo molto tempo a "chiacchierare" con quel magnifico uccello, e non mi accorgevo di ciò che accedeva intorno. Passavano settimane, mesi e stagioni. Cambiava il tempo, ma noi no, quasi tutti i giorni là, a parlarci, io fuori e lui dentro la sua gabbia.


Qualche giorno passavo e lui non c'era, chissà dove l'avevano messo. Altre volte ero io a non poter passare da lui, trattenuto altrove dalla cosiddetta vita di tutti i giorni. Però quelle volte mi mancava la chiacchierata giornaliera con quell'uccello ... non avrei creduto quanto mi mancava ! E non importava se ogni tanto mi beccava per essermi imprudentemente avvicinato alle sbarre della sua gabbia ... avevamo creato un legame affettivo molto forte.


Un giorno gli chiesi di raccontarmi la sua storia, come mai fosse finito in quella gabbia. Stava quasi per piovere, annunciava temporale, e lui cominciò:




---ooo---

Nella prima periferia residenziale della città cominciano a vedersi sempre meno palazzi alti e imponenti, sempre meno uffici e i negozi si fanno leggermente più piccoli, accoglienti e familiari. Si cominciano a vedere sempre più bambini in giro accompagnati dalle mamme attente, ma la vigilanza è leggermente più blanda che al centro. Giardini pubblici, viali alberati, villette a schiera, macchine familiari e buste delle spesa, cani di grande taglia, passeggini, biciclette, giardini curati di una cura maniacali per soli cinque metri quadrati di terra, traboccanti di fiori ma senza odore. Camminando per quei vialetti ombrosi ogni cento metri c'è una panchina dove gli anziani passano oziando le giornate guardando i nipotini giocare in attesa che anche loro non abbiamo più bisogno dei nonni. Panchine come anticamera della morte, una sorta di purgatorio in terra. Potrò bastare la loro attesa in terra?

Camminando per quei vialetti ombrosi la gente si saluta di continuo. Non credo si conoscano, non credo si siano neanche mai visti in vita loro, è il disagio che li fa sorridere reciprocamente e lanciarsi cenni di saluti come se mai avessero passato una serata se non insieme l'uno all'altro, una famiglia all'altra.. E' il disagio di quell'atmosfera che deve trasudare tranquillità e amicizia e serenità, non potrebbero mai essere scortesi l'uno verso l'altro.. Non sotto quell'ombra dei viali puliti e familiari!

La prima periferia residenziale della città si snoda ai piedi della collina attrezzata per i fine settimana all'aperto, con arie da picnic e piste ciclabili fino in cima dove si gode la vista panoramica della città colorata, rumorosa, nebbiosa e concitata.. La sera da quella terrazza si possono vedere le luci della città, i fari bluastri lanciati, il rosso acceso e l'arancio e il giallo su sfondo nero e se la notte è silenziosa si sentono anche i rumori della città, la sua voce. Sulla terrazza panoramica c'è sempre silenzio... la sera è deserta, i ragazzi vanno via non si accontentano di ascoltare la voce della città, vogliono contribuire a crearla quella voce roca e vibrante, vogliono essere una di quelle luci a loro non basta guardarle dall'altro, vogliono essere dove quel faro ha la sua origine non osservare la sua proiezione. Ma la mattina dopo si svegliano ancora nei loro letti, in case silenziose e profumate di caffè al richiamo della mamma che li esorta ad andare a lavoro o a scuola o all'università o dov'altro.. Parlano della sera prima come se fossero state altre persone in altre vite a combattere altre battaglie e costruire mondi nuovi, ma poi tornano a dormire a casa nella prima periferia residenziale della città e a considerare problemi il non avere il parcheggio nel vialetto di casa!



Nella prima periferia residenziale della città un giorno è passato uno stormo di uccelli migratori. Piccoli e resistenti, di una bellezza che andava altre la visione del bello, fieri e così attaccati alla vita da risultare impensabile che potessero morire. Il loro canto rischiarava la mattina ed era allegro e alto e forte da risultare impensabile che potessero essere tristi. Erano uccelli migratori che vivevano il cielo e non avevano paura di cambiare posto e abitudini, erano uccelli migratori di quelli che non si avvicinano all'uomo, che lo tengono a distanza, che non disdegnano di beccare le briciole di pane, ma con orgoglio quando l'uomo è andato via, senza paura, senza dolore, senza necessità. Erano uccelli da guardare andar via... Erano uccelli di cui non ci si poteva innamorare era nella loro natura andar via.

Uno di loro, il più bello forse, il più curioso senz'altro si allontanò dagli altri quando arrivarono nella prima periferia residenziale della città... La trovava bella, a tratti sicura, così confortevole, e lui era stanco di dover sempre combattere per la vita, di doversi svegliare ogni mattina e di non sapere dove fosse, ed era stanco di dover andar via e di non essere mai amato. Trovò bella la prima periferia residenziale della città tanto che si avvicinò alle finestre delle case curare e colorate e guardò dentro. Ma dentro non era bello come fuori, la nebbia e l'oscurità, il freddo e il silenzio, il silenzio, il silenzio, il silenzio anche nelle parole... non era come il guscio esterno quello che vedeva dentro...

Via.. doveva andare via.. al più presto .. che brutta visione, l'avrebbe accompagnato per sempre.. per sempre l'avrebbe avuto davanti agli occhi, una tale bruttezza, una tale mancanza di sentimenti, una tale vacuità... Doveva raggiungere gli altri veloce, il più veloce.. Scappare via..



Nella prima periferia residenziale della città una mattina fu trovato un uccello bellissimo, di una bellezza che andava altre la visione del bello, era un uccello migratore piccolo e resistente.. Si era incastrato in una di quelle retine antizanzare davanti ad una finestra.. Era li incastrato che tentava di volar via con tanta forza strattonava che era riuscito a rompersi un ala.. Ed ancora urlava e strattonava con quanta forza aveva in corpo. Se non lo avessero liberato si sarebbe strappato un ala pur di andare via, lontano. il più lontano. Ma via, piuttosto morto, ma vero!!

Il padrone di casa lo liberò dalla retina, ma non lo avrebbe mai più liberato. L'uccello immagino il meglio, quell'uomo lo avrebbe curato e mentre lo nutriva intono il miglior suo conto per gratitudine, un canto da far innamorare. E si innamorarono di lui! E lui li amo. Pensava che avrebbe sentito la loro mancanza quando sarebbe andato via. Ma non gli era permesso andar via. E lui non amò più!



Nella prima periferia residenziale della città in una casa dal guscio luminoso e allegro adesso, appeso al soffitto c'è una gabbietta, proprio li davanti alla finestra protetta dalle zanzariere. Nella gabbia un uccello, di una bellezza che va altre la visione del bello. Quell'uccello ha un ala spezzata, il suo nuovo padrone ha trovato il modo per non farlo scappare non curandogli mai quell'ala perfettamente in modo che non potesse riprendere il volo. Appeso a quel soffitto l'uccello non canta più e tutti si chiedono il motivo, quando l'hanno trovato cantava così bene che ormai si erano abituati a sentirne l'allegro cinguettio.

<< Ma perché; quell'uccello non canta più, eppure prima lo faceva così bene! Che peccato.. starà morendo!! Però che ingratitudine, dopo tutto quello che abbiamo fatto per lui. Lo abbiamo salvato dalla rete, lo abbiamo nutrito, lo abbiamo pulito, lo abbiamo tenuto al caldo. Ogni giorno gli abbiamo aperto la finestra perché; potesse veder fuori. a volte abbiamo persino tolto la zanzariera in modo che potesse vedere i colori.. Che ingrato!! >>

Nessuno più si innamorò di lui.. ma non si dovrebbe amare chi non vuole essere amato, chi ha per sua natura l'istinto di andar via. L'unico amore che avrebbe potuto accettare era la libertà, allora avrebbe amato per sempre.

Nessuno più si innamorò di lui.. ma nessuno lo liberò mai. E lui non amò più.

---ooo---



Era ormai tardi. Stava piovendo forte. Volai via senza dire una parola, tornando al mio nido solitario e pensoso, come solo gli uccelli selvatici sanno fare.