giovedì 23 giugno 2016

Carla B.

Carla l'avevo conosciuta come tanti altri, e altre: era venuta a lavorare anche lei dove lavoravo io. Avevo circa trent'anni, lei ventisei. Fisicamente era una ragazza piccolina, magra ma non esile, si sarebbe detto atletica, a suo modo. Aveva i capelli rossi, ma non rosso-rame, piuttosto di un colore rosso-scuro, che a volte lasciava intravvedere un po' di castano: però erano inconfondibilmente rossi.

Gli occhi nocciola, anzi color castagna, vivissimi, la pelle chiara punteggiata di efelidi, specialmente intorno al naso, e il viso dolce e triangolare completavano il quadro. Già, perché sembrava uscita da un quadro di un pittore toscano rinascimentale. Parlava con un accento spiccatamente fiorentino, e velocissimo. Per questo, forse, alla fine di ogni frase faceva una piccola pausa, come per aspettare che io capissi ciò che aveva detto.

Rideva spesso, ironicamente, così come ironica era la sua bocca quando si atteggiava a sorriso. Non portava trucco né rossetto: diceva di essere allergica. Ma quello che mi aveva colpito di lei non era l'aspetto fisico. Aveva la capacità di trafiggere con lo sguardo e, all'occorrenza, con le parole.

Cominciammo a vederci spesso, dopo il lavoro, a cena e oltre. Usai il mio logoro cavallo di battaglia per avvicinarmi ancora un po': l'astrologia. Mi disse che era della Bilancia, ma che era nata settimina. Mi disse anche il giorno, ma non ricordo. Feci un rapido calcolo e decisi che era un Sagittario. Glielo dissi, e mi inchiodò con una delle sue risate, e lo sguardo un po' di traverso. Mi diede piena fiducia e diventammo amici, così intensamente come mi era riuscito con poche altre persone.

Mi confessò di essere credente, e di voler arrivare vergine al matrimonio. Mi disse anche che era stata una campionessa di nuoto nella sua categoria, pochi anni prima: questo chiariva molte cose della sua muscolatura e struttura fisica. Mi parlò della sua famiglia, di suo padre, che adorava come il padre più buono dell'Universo. Decidemmo che all'inizio dell'inverno ci saremmo iscritti all'unica piscina coperta disponibile, e cominciai a tremare pensando che non avrei potuto reggere il confronto.

Mi disse di non preoccuparmi, che ci saremmo preparati attraverso un preciso programma di ginnastica, che lei conosceva perfettamente. Entrai seriamente nel panico.

Col senno di poi, devo dire che ebbe ragione anche stavolta. Tre o quattro giorni a settimana veniva lei a casa mia con tutto il necessario (tappetini e qualche peso), poiché la mia casa era grande e vuota, mentre la sua era piccola e affollata da coinquilini non molto collaborativi.

Dopo la ginnastica, facevamo la doccia. Separatamente, prima lei poi io. Non facevo mai mancare un morbido accappatoio bianco, preso apposta per lei. Ci rivestivamo alla svelta e andavamo a fare un giro in centro, a volte la spesa al supermercato.

Come previsto, all'inizio della stagione fredda ci iscrivemmo in piscina: orario da cani, dalle otto alle nove di sera, ma così eravamo sicuri di non trovare quasi nessuno. Infatti solo qualche volta incontrammo una o due persone, che si perdevano nello spazio di quella piscina olimpionica.

La prima volta che entrammo in acqua, ciscuno nella sua corsia, ebbi la conferma di aver incontrato un essere sovrumano, una specie di Dea dell'elemento liquido. Mentre io arrancavo col mio stile goffo, lei era già arrivata in fondo e stava tornando indietro, apparentemente senza sforzo. Ad ogni svolta cambiava stile, e sembrava sempre perfettamente in sintonia con l'acqua. Come una Sirena.

Alla fine dell'ora, uscimmo e lei mi accolse col suo sorriso più dolce: io non sapevo da che parte guardare, ma lei mi rassicurò, dicendo che se lo aspettava e che potevamo restare amici lo stesso.

L'attività in piscina ci aveva messo addosso una gran fame, e ci precipitammo a casa sua, dove era pronta la cena che avevamo predisposto prima di uscire. Mangiammo velocemente e in silenzio, fra il russare dei suoi inutili coinquilini.