"Aspettare non è il mio forte" pensava, mentre era seduto da oltre due ora in quella "sala d'attesa", davanti a quella porta da cui gli avrebbero annunciato l'esito dell'operazione di Alessandro. Due ore o due settimane. O forse due vite. Una era la sua, quella che avrebbe voluto vivere, coi suoi entusiasmi, le sue fantasie, le sue illusioni forse, ma senza batoste e senza delusioni. L'altra ... meglio lasciar perdere.
Guardò per l'ennesima volta la porta, che non si apriva. Si alzò da quella sedia, come aveva fatto già mille volte, durante quel tempo dell'attesa. Sentiva una smania dentro, come un bruciore nelle vene, che gli chiedeva come e perché ora, ma proprio ora, non poteva essere dove avrebbe voluto, con chi avrebbe voluto. Si avvicinò alla finestra. Fuori il cielo azzurro era attraversato da nuvoloni bianchi e grigi, che parevano correre, affrettarsi verso chissà quale impegno lontano. Pensò ancora ad Alessandro, alla sua operazione, che, per quanto semplice, avrebbe potuto improvvisamente presentare qualche complicazione. E poi l'anestesia.
Il cortile su cui affacciava la finestra lasciava scoperto un angolo di cielo, quello in cui correvano i nuvoloni, ma il resto era occupato dalle squallide facciate delle altre sezioni dell'ospedale: finestre che si aprivano come occhi fissi, paralizzati dallo stupore o dalla noia per dover frequentare ogni giorno lo stesso dolore, gli stessi lamenti, le stesse inutili speranze. Altre sale d'attesa, forse, in cui si stavano consumando altre insofferenti aspettative di notizie, ansia di verità spicciole, senza pretese, se non quella di sapere che il momento critico era stato superato.
Riprese a vagare con la mente, uscì in quel cortile, volò su nel cielo nuvoloso come i suoi pensieri, e sentì ancora quella fitta, quel dolore proprio lì, in mezzo alla fantasia, là dove galoppavano le sue speranze, il pazzo dolce mondo intimo e privato dei suoi sogni più veri.
Non sapeva lottare contro il tempo. E non sapeva se il tempo, almeno quella volta, sarebbe stato suo alleato o, come sempre, suo nemico.
Si voltò, interrogando ancora quella porta, che rimase chiusa.
Piena di porte chiuse gli sembrava ora la sua esistenza, spesa quasi tutta dentro squallide sale d'attesa del cuore, sognando entusiasmanti spicchi di futuro che solo la sua smisurata fantasia riusciva a colorare come fossero veri.
Piena di porte aperte quando ormai. Quel senso del "troppo tardi" lo fregava, lasciandolo lì pieno di rimpianti per non aver potuto, per non aver avuto l'occasione neanche di un rimorso. Poter essere sé, finalmente agire a rischio di sbagliare e di pentirsi: questo sentiva essergli stato negato.
Ma forse questa volta no.
Avrebbe atteso che la porta si aprisse. Decise di aspettare: sarebbe arrivato il suo momento. Sperava ancora che non fosse, come al solito, troppo tardi per qualsiasi cosa.
Si rimise a sedere, davanti a quella porta. Chiusa.